Ho letto Una specie di scintilla, il romanzo di esordio di Elle McNicoll, e trovai straordinario il modo in cui quella storia, quelle parole mi offrirono la possibilità di parlare di inclusione scolastica. Da allora sono trascorsi quattro anni e anche questa volta, leggendo il suo ultimo libro, ho sentito forte la necessità di scriverne anche per provare a fare una riflessione su cosa significa oggi effettivamente “fare inclusione” a scuola, se la strada intrapresa è quella giusta o se serve cambiare postura e aprirsi a nuove prospettive e punti di vista.
Ma iniziamo dal principio…
Come un incantesimo è il primo volume di una dilogia fantasy con protagonista una ragazzina neurodivergente e da pochi mesi è stato pubblicato anche il secondo volume Come una maledizione. Come gli altri romanzi dell’autrice, entrambi sono stati pubblicati dai tipi di Uovonero con la traduzione Sante Bandirali.
La storia è ambientanta ad Edimburgo, capitale di quell’affascinante Stato del Regno Unito che è la Scozia. Terra selvaggia, misteoriosa e piena di fascino, costellata di castelli scavati nella roccia e brughiere ventose, di fiordi e laghi nebbiosi, da sempre la Scozia è stata al centro di storie di miti e leggende. Edimburgo è il cuore pulsante di questa storia con le sue strade, i suoi vicoli, i suoi sotteranei e le sue acque piene di mistero che assicurano al Popolo Nascosto la possibilità di continuare a vivere senza esser visti dagli umani. Le creature magiche per poter vivere tra gli umani proteggono la loro vera identità con il Glamours. Solo Ramya riesce a vedere oltre e quindi a portare alla luce le reali caratteristiche di vampiri, troll, kelpie e altri esseri fantastici, superando i falsi miti e gli stereotipi con cui da sempre vengono raccontati da film e libri.
Ramya Knox, dodicenne disprassica, in seguito alla morte del nonno, accetta il delicato compito che lui le ha lasciato in eredità: scoprire la verità sul Popolo Nascosto. Questa quindi sarà la sua sfida: scrivere la vera storia di queste creature magiche allontanandole dai pregiudizi. Una sfida che Ramya accetta e che porterà avanti con tutta se stessa e che l’aiuterà a scoprire di avere lei stessa dei poteri magici, molto più forti di quelli che in un primo momento aveva immaginato. Poteri che le saranno utili contro le creature più temibili di tutte: le sirene! Mostri che usano la loro voce per manipolare e ottenere ciò che vogliono, capaci di entrare nella vita degli esseri umani e di far letteralmente scomparire chi resiste.
L’interiorizzazione dell’immagine sociale
Alla protagonista di questa storia è stata diagnosticata la disprassia, più formalmente conosciuta come disturbo della coordinazione motoria (Developmental Coordination Disorder – DCD). Colpisce le capacità motorie e di elaborazione. A me è stata diagnosticata all’età di 9 anni. La mia scrittura è disordinata ma, come Ramya, non ho mai permesso a nessuno di dirmi quello che posso o non posso fare”.
Elle McNicoll
Come sappiamo l’autrice Elle McNicoll è sostenitrice di una migliore rappresentazione della neurodiversità nell’editoria e in questo romanzo sceglie di raccontare la storia di una ragazza disprassica. Ramya ha alcune difficoltà nelle abilità motorie e purtroppo il contesto in cui vive le fa percepire questa sua neurodivergenza come causa di esclusione sociale. A scuola viene obbligata a seguire dei laboratori finalizzati a migliorare la sua grafia e lei vive tutto questo con vergogna e frustrazione.
Ogni volta che premo la penna sul foglio sento un pizzico di frustrazione. È noioso. È palloso. Risucchia qualcosa fuori da me, qualcosa a cui non riesco a dare un nome. La scuola è come scalare una collina ripidissima. Ogni volta che cerco di afferrare un pezzo di roccia o un sasso, nel disperato tentavio di tirarmi su, compare qualcuno per dirmi che lo sto facendo nel modo sbagliato.
Ramya percepisce il suo essere diversa dalla norma perchè tutto intorno a lei, la scuola, la famiglia, le chiede di cambiare, di essere diversa, di migliorare, di essere come gli altri.
Gli insegnanti hanno perso così tanto la speranza in me da arrivare al punto di dimenticare qualsiasi mio potenziale. Mamma e papà sono preoccupati per il lavoro e pensano che il successo scolastico sia l’unica misura di valore. Ogni giorno mi sembra di aver fallito nell’essere la persona che tutti vorrebbero. Qualche Ramya inesistente vive nelle loro teste e ogni volta che io non mi comporto come lei ricevo sguardi disapprovazione e profondi sospiri.
In tutto il romanzo si avverte forte la ricerca da parte di Ramya della propria identità sociale. Ma i contesti, educativi e famigliari, in cui vive le sue relazioni le offrono una rappresentazione di sè come di una persona sbagliata, incapace, che potrebbe far parte dei DT (dotati e talentuosi) solo se…Sentire di appartenere ad un gruppo “lontano dalla normalità” genera sofferenza nella protagonista. Ma poi conosce le creature magiche che vivono il suo stesso dissidio interiore e finalmente Ramya sente di appartenere ad una comunità in cui si riconosce e in cui si sente integrata. Il riconoscimento reciproco crea vicinanza, relazioni e attribuzioni positive e si evitano i danni della stigmatizzazione.
Tuttavia, mentre le creature magiche celano la loro vera identità dietro il Glamours, pur di sentirsi accolte dagli esseri umani, Ramya no. Ramya non vuole nascondersi, non vuole dissimulare. Ramya rivendica il diritto a essere se stessa con tutti i suoi colori, con tutte le due sfumature e a vivere finalmente senza l’ingombro di una etichetta che è fonte di pregiudizi e stereotipi che non è più disposta ad accettare.
Dai bisogni educativi speciali all’ “Education for all”
“Bisogni speciali?” dico ironicamente. “Sono disprassica e fantastica. Non ho nessun bisogno speciale, nessuno ne ha. È un’etichetta che appiccicano a quelli di noi che non rientrano nell’uniforme più piccola del mondo”.
Era il 2012 quando il concetto di bisogno educativo speciale veniva accolto nella legislazione scolastica italiana. Le prime formulazioni di questa macrocategoria “politica” rispondevano all’esigenza di una maggiore tutela nei confronti di studenti e studentesse che, pur non avendo alcuna “diagnosi”, vivevano delle difficoltà. La Direttiva Miur del 2012 sebbene innovativa, soprattutto laddove, seppur timidamente, dava la possibilità alla scuola di riconoscere il diritto alla personalizzazione anche in assenza di disturbi diagnosticabili, non è esente da critiche. Si è assistito negli anni ad una forse eccessiva classificazione, soprattutto di taluni specifici gruppi minoritari (es. studenti con backgroung migratorio), all’interno della categoria dei BES, generando profezie che si autoavverano, un effetto Pigmalione negativo. Di fatto, tali politiche non hanno permesso di intervenire in maniera inclusiva in quanto, ancora una volta, il focus è stato sulla mancanza, sul problema sui quali si è agito nella logica dell’emergenza.
A distanza di anni dall’applicazione della direttiva ministeriale, in ambito pedagogico si ritiene necessario fare un ulteriore passo verso un orizzonte ancora più ampio che punti a superare sia la macrocategoria dei Bisogni Educativi Speciai sia il concetto stesso di inclusione, ritenuto ancora troppo legato a dinamiche di potere. Oggi si comincia a parlare di universalità, perchè se vogliamo che le nostre scuole siano veramente in grado di abbracciare “l’infinita varietà delle differenze umane” (Fred Vargas) allora è necessario lavorare sulla costruzione di contesti formativi plurali capaci di supportare il successo formativo di tutte e tutti (Ianes & Demo, Specialità e normalità, Erickson 2022).
Quindi, cosa dovremmo fare? Lo dice con chiarezza Ramya. Lei non ha nessun bisogno educativo speciale. Nessuno ne ha. Esistono specialità che sono il frutto della combinazione di quelle differenze che rendono ognuno di noi un essere unico. Allargare l’idea di specialità significa riconoscere la differenza come valore universale, significa dare valore alle singole biografie. Significa anche ammettere che la vulnerabilità fa parte di ogni esistenza. E nel promuovere questo ampliamento, occorre ripartire con attenzione e consapevolezza dai bisogni di tutti, provando a ribaltare la prospettiva: dal «si capiva che aveva difficoltà, bisogni speciali» al «che cosa ho fatto perché questo bambino/ragazzo non fosse in una situazione di difficoltà?».
Possiamo quindi superare i concetti di disabilità e bisogno educativo speciale ponendo in stretto dialogo tra loro normalità e specialità, scegliendo non più la logica dell’emergenza finalizzata a colmare una mancanza ma costruendo contesti plurali e flessibili (Universal Design for Learning) in cui l’intervento speciale si collochi all’interno di una logica ordinaria che arricchisca la qualità della didattica e la renda accessibile e significativa per tutti.
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